Nell’articolo, già fin troppo corposo, che ho scritto sul Todays per Off Topic Magazine ho parlato meno di quanto avrei voluto del live di Red, alias Christine and the Queens. E volutamente non mi sono soffermata su alcune cose che ho letto e che mi hanno lasciata basita e piena di dubbi riguardo alla comprensione della performance di domenica 27 agosto.
Quando raccontavo come sarebbe stato il live di Christine and the Queens, una performance che va oltre la musica, che include il teatro, che va attentamente osservata e ascoltata per essere compresa (e parlo del vecchio live, non di questo, ancora più complesso), spesso le persone mi rispondevano: “Ma in Italia mica può fare lo stesso show, la gente non lo capisce, farà qualcos’altro perché le persone non capiscono l’inglese, figurati”.
Io, però, ho pensato che certi ragionamenti siano basati sulla sfiducia nei confronti di un pubblico che si suppone essere più scemo di quanto in realtà non sia. E, da un lato, fortunatamente, ho ragione.
Ma dall’altro, purtroppo, una parte del pubblico ha dato, per l’ennesima volta, ragione alle persone che dicono che noi italiani non siamo in grado di capire.
Ma magari il problema fosse l’inglese.
Anche perché questa performance è basata interamente sulla fisicità e sui movimenti del corpo, che parlano una lingua universale.
Sul palco c’è un uomo, che racconta la straziante strada verso la consapevolezza della propria identità, in una metafora complessa rappresentata attraverso un dialogo con gli angeli sul rapporto tra corpo, persona e spiritualità. Lo spettacolo prende spunto dalla pièce teatrale “Angels in America”, (di cui ho scoperto esserci anche una mini serie in 3 puntate con un cast pazzesco), di Tony Kushner. Una opera che vuole indagare, in modo drammatico e ironico, gli interrogativi esistenziali e sociali, attraverso apparizioni di angeli e riferimenti biblici, con tanto senso di colpa e di condanna divina.
Il problema è che questo uomo è nato con un nome da donna, e, per quanto lui sul palco trascenda dalla propria identità, e lo fa anche mostrando il suo corpo, interpretando gestualità femminili, scimmiottando quelle maschili, assurgendo ad angelo lui stesso alla fine della performance, ho letto cose come:
“Oltre alle tette e a statuette brutte non c’era altro”.
Ora: Red è uomo, non ha compiuto la transizione e quindi il fatto che sia a petto nudo sul palco è già di per sé al pari di una icona sacra.
Andrebbe compreso il potente valore simbolico di un uomo che si mostra a petto nudo, si sente a proprio agio di fronte a migliaia di persone, mostrando un corpo angelico, che non ha paura di mostrare tutto di se stesso, incluse quelle parti che ti identificano socialmente come una donna.
È già di per sé una immagine che vale più di mille parole, che vale a smontare il “non c’è altro” e che quantomeno dovrebbe portare a porsi delle domande, ad approfondire, a chiedersi, anche banalmente, “perché lo fa?”.
In “I feel like an angel”, Chris dice:
And the woman in red said a part of me left with her
Told me to give her away, she’s a liar and a fool
Maybe she died this day just to take away the pain
So I don’t have to be warm and solid ever again
Chris ha un altro nome: Red. I suoi colori sono rosso e nero, le sue due identità in conflitto perenne. Sul palco indossa abiti maschili ma anche femminili, e solo alla fine si raggiunge l’agognata redenzione di una vita condannata a portare il peso del senso di colpa, trasformandosi in un angelo.
Chiaramente è un live molto complicato di un disco già di per sé complesso, che per capire a fondo necessita di una approfondita conoscenza di tutta la sua discografia anche come Redcar, oltre che, appunto, conoscere la sua storia personale di identità. Forse non si presta bene per una dimensione di festival, dove il pubblico è variegato? Mi sono chiesta anche questo, ma mi sono risposta: perché no? Questa performance serve proprio ad arrivare fuori dalla bolla, arrivare a chi ancora non sa, e dare uno spunto di approfondimento. Serve, è necessario, deve aprire un dibattito. “È giusto!”, ho pensato, “è necessario”.
Eh ma facile, mi potete dire, a te Christine and the Queens piace e allora conosci tutto. Ma veramente io le cose che so le ho semplicemente lette in giro, a volte prima di scrivere recensioni, o leggendo i testi delle canzoni che ascoltavo. Manco fossi quella grande espertona, su Chris: semplicemente, all’uscita di “Redcar les adorables ètoiles” mi sono fatta una domanda molto banale “Ah, ma perché negli articoli che leggo parlano di lui al maschile e lo chiamano Red? Cosa mi sono persa?” e ho aperto, banalmente, Wikipedia (e forse un paio di recensioni googlando).
C’è chi invece ha visto, ha sentito, e non si è posto domande, anzi.
“Lei si sentirà pure uomo ma io la vedevo molto donna.”
Perché scrivere questo? Mi sono chiesta. Perché lo stai snaturando della sua identità, già complessa, che sta portando sul palco e sta cercando di farti comprendere attraverso la sua presenza, le sue parole, la sua performance? Ho commentato spiegando quello che sto dicendo a voi ora, e mi sono sentita anche la stronza che fa la punta al cazzo perché mi è stato spiegato che “il commento era in buona fede” e si può esprimere una opinione senza offendere nessuno e senza sapere tutta la storia di un artista.
Posso comprendere la buona fede e che non si possa conoscere tutto di un artista, ma sapendo che una persona si identifica come uomo, magari un poco di attenzione sul pronome sarebbe una buona cosa, magari evitare di ripetere più volte che secondo il tuo sguardo è comunque una donna, svalutando tra l’altro la sua stessa identità (“lei si sentirà pure un uomo MA”), o evitare di reiterare la cosa, aggiungendo: “lei però ha un nome da donna e biologicamente una bomba”.
Capisco i dubbi: sono un uomo e sono attratto da una persona che si identifica come uomo, questo fa di me un gay? No. Come il dito nel culo quando scopi non ti fa gay, è nessuno verrà a chiederti indietro il gettone della tua eterosessualità. (perdonate il mio francesismo).
Capisco anche che “non si voglia offendere nessuno”: io non potrei rimanere offesa in quanto persona cis, ma sono comunque rimasta basita, al punto di scriverci tutto sto pippone e mi scuso di nuovo. Ma magari non ci si può chiedere, prima di scrivere - e sottolineo scrivere perché c’è più di un commento che ribadisce la cosa e scrivere per me significa prima pensare, poi verbalizzare, e infine scrivere, un processo piuttosto lungo- , se quello che sto scrivendo “in preda all’entusiasmo” possa essere problematico per alcune persone? Persone che magari stanno vivendo un percorso difficile, che stanno cercando la loro identità e che in quelle parole perdono un po’ di speranza, perché nonostante lotti per decenni per dirmi che no, non stanno proprio così le cose, arrivi tu che mi dici “sticazzi, se per me sei donna, io ti vedrò sempre donna”. È quasi come se un intenso percorso personale e sociale, difficile, complesso, venga non solo sminuito, ma pure giustificato dall’ “entusiasmo del momento”, “in buona fede”, “senza voler offendere nessuno”. "( Se vi risuonano altri esempi, beh, sì, è proprio uno di quei casi in cui si fa l’uscita infelice e poi si dice “ma era un complimento!”).
Mi sono anche chiesta: è la mia battaglia? Quel famoso mio amico, di cui vi parlavo una una scorsa letterina, mi direbbe “tu non puoi commentare perché non sei un trans” (lo metto in corsivo per ribadire che non sono assolutamente parole mie).
Stiamo sempre a dirci tra di noi, alla nostra piccola bollicina, quanto sia importante parlare e fare la nostra parte e poi ci dovremmo voltare dall’altra parte quando leggiamo qualcosa che ha delle oggettive problematiche? Quindi preferisco passare per una che fa le punte al cazzo e la maestrina, che fare finta di niente e dire “ a me cazzo me ne frega”: ho ancora quella speranza che la persona legga il mio commento e si domandi “come mai mi specifica che questa persona si identifica come uomo? È forse sbagliato continuare a parlare di lui come donna e scherzare sulla cosa?”, “Forse potevo usare parole differenti per esprimere il mio entusiasmo?”.
E magari si crei così un circolo di approfondimento, che ancora tanto manca. E che tanto è mancato nelle persone a quel live, alcune delle quali giornalisti che hanno scritto della poca consistenza del live di Christine and the Queens.
Se non abbiamo gli strumenti per parlare di qualcosa, perché non ce li procuriamo? Perché lasciamo che la superficialità sia il livello sotto il quale stare, e che il nostro punto di vista non venga mai messo in discussione? Perché abbiamo sempre mille giustificazioni, e nemmeno un dubbio?
Perché scriviamo articoli dove diciamo che un live fa cagare, poi però quando te lo spiegano: “ah non mi ero informato”. Ah, non ti eri informato, ma intanto hai scritto le tue parole, sentendoti magari anche simpatico nel farlo.
E le parole restano. Le parole identificano. Le parole offendono.
E come si risponde alle parole?
Con la propria presenza.
Potente.
Quest’anno ho visto Sam Smith sul palco, nudo se non per mutande e calze a rete, legittimare e benedire un corpo non conforme e una identità sessuale considerata “diversa”. Solo con la sua presenza, libera e felice.
Quest’anno ho visto Christine and The Queens sul palco, nudo se non per dei pantaloni, legittimare e redimere un corpo dalla sua identità sociale. Solo con la sua presenza, tragica e libera.
Se poi ci vedete solo delle tette, questo temo sia un problema vostro.
Bisogna avere pazienza. Ce la insegnano fin da piccole.
La pazienza degli angeli.
Bismillah
I fell in love with an angel
She appeared
And there she tore up my whole world
Teaching me patience in a second
She's teaching me patience/
Bismillah
I fell in love with the devil
Oh, where is she?
Where is she when I try to call?
Teaching me waiting over feeling
She's teaching me fear again
Open your heart, my love
Just try it once, my love